Vallone Lacerno a Campoli Appennino

Vallone Lacerno a Campoli Appennino

Poco lontano dal centro storico di Campoli Appennino (Frosinone), il Vallone Lacerno è un canyon, una discesa spettacolare che porta fino ad una cascata nel profondo della gola, detta “Cuccetto dell’Inferno”, che rientra nella fascia di protezione esterna del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Si tratta di 520 ettari di area Wilderness unica nel suo genere. Le rocce situate all’interno del vallone, la cui origine risale a circa 150 milioni di anni fa, ossia al periodo Giurassico, sono di origine calcarea e dolomitica. Queste rocce si sono formate per deposizione di fanghi calcarei e resti di organismi in un ambiente non molto diverso da quello delle attuali scogliere coralline. La natura calcarea del territorio rende le rocce permeabili, perciò il Lacerno è ricco di acque nella stagione piovosa e durante lo scioglimento delle nevi.
La zona racchiude in un unico bacino la stragrande maggioranza delle fasce vegetazionali della montagna appenninica, dalla macchia mediterranea alla fascia d’alta quota, come faggi, lecci, aceri, carpini e querce.
Anche dal punto di vista faunistico si segnala in questa zona la sopravvivenza di alcune tra le specie più rare, tra cui l’orso bruno appenninico, il lupo appenninico, il falco pellegrino, l’aquila reale, il gufo reale e da alcuni decenni il camoscio appenninico e il capriolo.
Tra le numerose grotte e caverne prodottesi per i fenomeni carsici presenti, si trovano reperti di superficie dell’epoca Neolitica.
Nel vallone sono inoltre presenti diversi reperti archeologici di epoca romana risalenti al I e II secolo a.C., oltre ad alcuni resti di ponti e di un imponente acquedotto che i locali usano chiamare “condotto di Nerone”. In realtà la struttura, denominata in questo modo per tradizione, non ha nulla a che fare con questo imperatore. Molto probabilmente fu realizzato da Ottaviano, quando, avendo concesso una parte dell’agro sorano ai suoi veterani, ne doveva assicurare l’approvvigionamento idrico.

Le prime tracce sono individuabili in località Largo dell’Acqua, la conduttura costeggia poi il versante sinistro del torrente Lacerno sino alla zona denominata Campo e da lì prosegue fino al Rio Prato. Poco dopo l’acquedotto attraversa uno dei ponti sul Lacerno e passa sulla sponda destra nel territorio di Pescosolido. In questo tratto, secondo alcuni studiosi, la struttura doveva avere almeno tre arcate ed essere alto oltre nove metri.

(testo tratto da: www.comune.campoliappennino.fr.it)

...Evvi fra due montagne un fosso o pur precipitio da una tirata di archibuscio, et sotto vi scorre acqua. Lo dicono lo Lacerno, arborato dall’una e dall’altra banna de licine et altri bellissimi arbori, tutto sassoso, quasi inaccessibile per l’alte acute et spesse pietre, dove alla sicura praticano camosci et lupi assai. Hanno hauto animo alcuni di andarvi, et al fin saliti hanno trovate certe grottaglie manualmente fatte, meravigliose et secrete. E’ un terrore veder questo luoco: terrore, horrore et tremore. Molti vi vanno et restano stupefatti”.

Così nel 1574, nella sua “Descrittione di Alvito et suo Contato”, il Prudenzio descriveva questo angolo di natura primigenia che per secoli ha stimolato la fantasia e la spiritualità delle genti che hanno fruito della sua bellezza. Autori e filantropi stranieri sono rimasti ugualmente ammaliati da simile fenomeno geologico-naturalistico, lo stesso Kircher Athanasius, nel 1671, in una sua visita in queste zone così scrive: “ C’è vicino a Sora, una montagna altissima, chiamata, dal nome del paese più vicino, Monte di Teschiosolido, (sic) donde avevo sentito dire che in estate si trasporta ghiaccio... Avevo tante volte sentito parlare delle molte meraviglie di questa montagna, che decisi di farvi un’escursione e mi procurai delle guide... da qui … si offriva un bellissimo spettacolo... sugli altri lati l’altipiano era chiuso da alte e terribili catene di monti, nido d’orsi e d’animali feroci ”.

In tempi più recenti anche il maestro Basilio Conflitti, 1928, nella sua monografia su Campoli Appennino, traccia preziose testimonianze sul Vallone Lacerno, citando specie botaniche e zoologiche importanti per la conoscenza di questo biotopo, oltre, ovviamente, a fonti storiche di scontri e lotte per il territorio. Uno studio scientifico, 1979, della Società Botanica Italiana, a cura dello studioso Franco Zunino, coordinatore dell’Ass.ne italiana WILDERNESS, fu segnalato all’opinione pubblica al fine di evitare forme di interventi di sfruttamento turistico-antropico.

Successivamente anche il GEAC,1985, intervenne con successo per evitare la costruzione di una strada da parte del Comune di Pescosolido che doveva portare fin sopra la località “Pozzo della Neve-Cacchiete” per miglioramento di chissà quale pascolo. Il Vallone Lacerno situato tra i Comuni di Pescosolido e Campoli Appennino (FR) è a buon ragione considerato dai naturalisti di tutt’Italia e del mondo, la più bella area selvaggia a ridosso della marsica e dei monti laziali. Si estende su una superficie di oltre 2.000 ettari, confinante a nord-est con il Parco d’Abruzzo, con un andamento altimetrico che varia dai 680 m. slm. ai 2003 m. slm. riferimento cartografico IGM f° 152. Rientra nella fascia di protezione esterna del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Tra i vincoli esistenti solo quello idrogeologico, poichè alimenta l’acquedotto di Val s. Pietro.

Da proporre tra l’altro anche il vincolo paesaggistico, in quanto la zona racchiude in un unico bacino la stragrande maggioranza delle fasce vegetazionali della montagna appenninica, dalla macchia mediterranea alla fascia d’alta quota. E’ un’area ricca di valori biologici ed estetici, ma per la sua impervietà (forre, orridi, dirupi) poco nota anche dagli stessi addetti ai lavori (naturalisti, biologi, ornitologi), sebbene inserita alla fine degli anni settanta nell’elenco dei “Biotopi di valore vegetazionale meritevoli di conservazione ”.

Faggi (Fagus sylvatica), Lecci (Quercus ilex), Aceri ( Acer ssp.), Carpini (Carpinus ssp.), Querce (Quercus ssp.) ed altre essenze arbustive e floreali (Orchis ssp.), formano delle policromie spettacolari in ogni stagione dell’anno. La fauna, di notevole presenza e pregio, ha eretto in questo canyon l’ultima roccaforte per la sua sopravvivenza. Si segnalano tra le specie più rare come da “Convenzione di Berna”: l’orso bruno appenninico (Ursus arctos marsicanus), il lupo appenninico (Canis lupus italicus), il falco pellegrino (Falco peregrinus), l’aquila reale (Aquila chrysaetos), il gufo reale (Bubo bubo) e da alcuni decenni il camoscio appenninico (Rupicapra pyrenaica ornata, segnalazione di C. Castellucci, 1988, a M. Locati), il capriolo (Capreolus capreolus) oltre ad altre rare specie animali. Nel vallone sono presenti diversi reperti archeologici di epoca romana risalenti al I/II sec. a.C. oltre ad alcuni resti di ponti ed un acquedotto che i locali usano chiamare “condotto di Nerone”. Persistenze di remoti cenobi, romitori, il mitico convento di San Pietro nell’alta valle, vecchie nicchie votive e un vetusto “vallo” romano.

Tra le numerose grotte e caverne prodottesi per i fenomeni carsici presenti, si trovano reperti di superficie dell’epoca Neolitica. Ma la vera peculiarità di quest’area è, oltre alle varie ricchezze floro-faunistiche, la spettacolarità dei suoi panorami, la verticalità delle rocce, la magia delle acque con le loro girandole, l’erosioni nella nuda roccia, l’asprezza dei luoghi che fanno sentire al visitatore che penetra queste cattedrali della natura, quelle emozioni che dovettero provare i nostri antenati centinaia di anni fa. Una natura primigenia, selvaggia, che si è salvaguardata da sola, in quanto tale e non con “interventi mirati al miglioramento dell’ambiente”. Occorre soltanto una protezione vera, lasciare questi Santuari così come li abbiamo ereditati. Per dirla con le parole dell’allora presidente dello Zaire, Mobutu: “...nostro grande desiderio è che la natura selvaggia sopravviva anche quando altrove agli uomini non resterà disponibile che uno squallido mondo artificiale”. Ci siamo vicini, noi aggiungiamo !

(a cura di: Ciro Castellucci)

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