Giuseppe Cesari

Giuseppe Cesari il Cavalier d’Arpino nel 1582 a Roma cominciò a lavorare come garzone di bottega nella decorazione delle Logge Vaticane. Le doti naturali, forse l’insegnamento del padre, pittore anch’egli ma di nessuna rilevanza, e l’atmosfera artistica che respirò a Roma, determinarono l’inizio della sua fortunata carriera di pittore. Negli anni della sua formazione aveva assimilato il gusto manieristico diffuso nel tardo Cinquecento da Taddeo Zuccari. Già nel 1586 viene ammesso alla “Congregazione dei Virtuosi del Pantheon”. Lavorò nel Palazzo del Cardinale Sartori, capo dell’Inquisizione, e nelle chiese di Trinità dei Monti, di S. Silvestro al Quirinale, di S. Lorenzo in Damaso. Passò, poi, a Napoli per affrescare il Sancta Sanctorum della Certosa di S. Martino, lavoro completato dal fratello Bernardino . L’elezione di Clemente VIII a Pontefice e la sua protezione determinarono per il Cavalier D’Arpino il momento più fecondo e rilevante della sua vita artistica. Tra i riconoscimenti tributatigli il più prestigioso fu quello di Principe dell’Accademia di San Luca.

Opere più importanti: tra tante altre opere, dipense il ciclo di affreschi della Sala dei Conservatori in Campidoglio e l’Ascensione di Cristo in S. Giovanni in Laterano. Sopra i suoi cartoni furono condotti i mosaici della Cupola di S. Pietro e in S. Maria Maggiore affrescò la Cappella Paolina. Nel 1615-20 fa costruire ad Arpino all’ingresso della cittadina il Palazzo che abita durante i suoi soggiorni nella città natale. Qui, dipinge numerose opere di soggetto religioso che ammiriamo nelle chiese delle città.

Il Cavalier D’Arpino 1568-1640. “JOSEPH CAESAR ARPINAS” Così si firma il pittore italiano più in vista dell’Urbe a cavallo tra il 1500 e il 1600: Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino nato nel 1568 ad Arpino, in Terra di Ciociaria, provincia di Frosinone. Definito dai Conservatori dell’Urbe ‘pictor unicus, rarus et excellens ac primarius et reputatus’ di Roma, che, proprio per questo, prendono la decisione di far decorare il Salone del loro palazzo sul Campidoglio proprio a lui. Ha solo 27 anni ma già grande è la sua reputazione.
Tutto comincia quando, a nove anni, la sua famiglia lascia Arpino e si trasferisce a Roma in cerca di migliori prospettive di vita. Qui la sua fama comincia a girare da subito. A soli 14 anni, impiegato inizialmente come macinatore di colori nei lavori al terzo piano della Loggia del Palazzo Vaticano, è presto ammesso a partecipare alla pratica della pittura decorativa a fresco: non ha formazione professionale ma solo un grande talento. E ciò basta. Papa Gregorio XIII lo prende sotto le sue ali quando sa che è di Arpino, ‘Universitas’ appartenente a suo figlio Giacomo Boncompagni, Duca di Sora.

Gregorio XIII, Sisto V, Clemente VIII, Paolo V sono i papi che sanciscono la fortuna, il futuro del Cavalier d’Arpino, tanto da poterlo definire quasi un pittore di corte, sebbene sempre artista libero che serve il Papa quando questi ne ha bisogno. Come tale rinuncia alla tendenza manieristica a rendere oscuri i contenuti servendosi di artificiosi virtuosismi, prediligendo la dignità dei profeti e apostoli anziani, il fascino e la grazia della gioventù di ambo i sessi. Possiede un senso innato della bellezza decorativa e della pienezza dei colori. Queste caratteristiche corrispondono al suo temperamento, esattamente come il senso dell’eleganza e del movimento.

Nel 1583 è ammesso all’Accademia Artistica di S.Luca di cui sarà eletto membro e poi presidente più volte fino al 1631 quando lo sostuirà il Bernini. Tre anni più tardi, dopo aver fornito i disegni per le incisioni degli Statuta Hospitalis Hierusalem (pubblicati a Roma nel 1586), il Cesari è ammesso nella Congregazione dei Virtuosi del Pantheon potendo così ottenere commesse sempre più prestigiose come i grandi affreschi per San Lorenzo in Damaso. Questi affreschi, considerati come l’opera più significativa della pittura romana degli anni ’80, sono un trait d’union tra Raffello e la nuova generazione rappresentata da Guido Reni, dal Domenichino e Pietro da Cortona. Una pittura “dell’ingegno forza e grazia” che attrae, tanto più forte è il ritmo narrativo ricco di figure drammatiche e sensuali allo stesso tempo. Nel 1587 ottiene ancora una nuova importante commessa, gli affreschi per la volta del coro della Certosa di San Martino a Napoli, mai terminati a causa della morte del padre che costringe l’artista a rientrare a Roma. I personaggi, dipinti con colori tenui e vivaci, sono immersi in una luce chiara e rosata, tipica dello stile narrativo e leggiadro dominante nel clima pittorico di Sisto V.

Analizzando le opere del Cavalier d’Arpino realizzate dopo il 1592 è probabile che, nel 1590, fa un viaggio in nord Italia per perfezionare le sue conoscenze pittoriche. Questo spiegherebbe la nuova cifra stilistica che caratterizza gli affreschi della Cappella Olgiati (1592), capolavoro assoluto dell’artista, che inaugura un nuovo brillante modo di dipingere con una gamma cromatica gioiosa e sensuale del tutto nuovo a Roma.
Le opere di questo periodo mostrano influssi evidenti della pittura toscana ed emiliana: Pontormo a Firenze, Correggio a Parma, il Gatti e il Campi a Cremona, lo Scarsellino a Venezia. L’artista usa colori di intensità e profondità estranee alla maniera, conferendo alla pittura una nuova sensualità, meno astratta, percepibile visivamente; riesce ad esprimere la grazia e il sublime, il leggiadro e il grandioso nelle rappresentazioni di soggetti religiosi e storici. Ancora grazia, leggiadria ed un sottile erotismo è il leit-motiv degli affreschi per il Palazzo Orsini in Via del Parione (oggi sede del Pio Sodalizio dei Piceni a Roma) per la cui concezione tematica “Il Trionfo dell’Amore” fu incaricato Torquato Tasso.

uesto lavoro piacque molto al cardinal Aldobrandini amante delle gioie della vita, che affida al Cesari gli affreschi di Donne Virtuose per la Villa Belvedere di Frascati.
Da questo momento il Cesari, come pittore prescelto dell’uomo più potente di Roma, diventa il pittore preferito del pontificato Aldobrandini, ottenendo le commesse più significative in Vaticano e nell’Urbe, come la decorazione del Salone dei Conservatori in Campidoglio (commisione cominciata nel 1595, durerà 40 anni e la terminerà, poco prima di morire, nel 1640). Il gigantesco affresco della “Battaglia dei Romani e dei Veienti” (Roma, Palazzo dei Conservatori, 1597/98) è, per dimensione e composizione, il quadro più significativo di questo genere eseguito a Roma in quegli anni e sarà, più tardi, considerato il suo capolavoro. Nella composizione dell’affresco non ci sono né vinti né vincitori; all’artista non interessa fare un preciso riferimento a quella determinata battaglia ma, piuttosto, intende far emergere l’eroismo dei due eserciti. Tra i gruppi di figure in lotta dal ritmo concitato, Roettgen ha riconosciuto un autoritratto del pittore che, da Arpinate, non si riconosce nell’esercito romano bensì si pone come guerriero accanto al capitano dei Veienti.

Da questo momento, le commesse al pittore diventano sempre più numerose. Insieme agli affreschi esegue molti quadri di piccole dimensioni, come la pregiata tela della Cattura di Cristo, una drammatica scena notturna definita dal Bellori, che pur ripudia il Cesari, “la più bella opera che facesse il Cavaliere”. Le luci violente danno il senso di drammaticità alla scena mentre gli uomini si precipitano in modo concitato in tutte le direzioni; Cristo, al centro, conserva la compostezza di una figura classica. Il quadro è fonte di ispirazione per il giovane Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, che, dal 1593, per otto mesi, frequenta la bottega del Cesari.

Il 1600 è l’anno d’oro per il Cavalier d’Arpino: ottiene le più prestigiose commesse ufficiali, dopo aver ottenuto anche un titolo nobiliare. Ma questo è anche l’anno in cui salgono alla gloria Annibale Carracci, che termina la Galleria di Palazzo Farnese, il Caravaggio e Guido Reni.
Ecco che per volere di Clemente VIII, il Cesari interrompe la decorazione della Villa del Belvedere di Frascati per disegnare i cartoni della Cupola di San Pietro in Vaticano. E’ la commessa più imponente, laboriosa e prestigiosa che il pittore potesse mai ricevere, senza però purtroppo divenire il lavoro più riuscito. Infatti, le direttive imposte sull’iconografia e la composizione rispondono a quel clima conservatore e manierista adottato già da Federico Zuccari nella cupola del duomo fiorentino. Il Cesari deve, così, rinunciare alle novità illusionistiche da lui tanto apprezzate a Parma, nella Parma del Correggio. Ciò perché al cardinal Baronio (suo conterraneo) e a Clemente VIII interessa rinnovare la tradizione paleocristiana della Chiesa, la cui massima espressione artistica è affidata al mosaico figurativo con la semplice raffigurazione di una teoria di santi. Come sottolineato da Roettgen, il Cesari riproduce apostoli e santi, situati in pannelli, privi di movimento, secondo il principio formale di posa accademica. Quest’opera imponente raggiunge un effetto d’insieme grazie alla figura fluttuante del Dio Padre che, scendendo dalla lanterna verso la cupola, investe di movimento tutte le figure.

Clemente VIII muore e il suo successore Paolo V affida al Cesari la supervisione della decorazione pittorica della Cappella Paolina di S.Maria Maggiore. Qui è evidente il suo rifarsi a Raffaello e Michelangelo. La maturazione pittorica lo riporta verso gli ideali del Rinascimento, vagheggiando quell’ideale classico raffaellesco, anelato anche da tutta la scuola bolognese e da Guido Reni.
Nel 1615 intavola le trattative per i mosaici da realizzare nell’abbazia benedettina di Montecassino, tanto cara al pittore, ma i suoi cartoni del Cesari non sono utilizzati, saranno distrutti dai bombardamenti del 1944.
Ecco che, dal 1610, il Cavalier d’Arpino non segue i nuovi orientamenti di cultura e di gusto, indirizzandosi ad una maniera severa, rigida, quasi reazionaria. Domina da questo momento nei suoi quadri un’espressione melanconica, fredda e irreale, che si veste, però, di una cromia raffinatissima, strana e sofisticata, tale da esercitare sull’osservatore un fascino freddo al quale è difficile sottrarsi. Se la sua maniera tarda è considerata mancante di idee, ed esaurita, invece si può dire, che questo momento è il più coraggioso del suo percorso artistico dal punto di vista ideologico-spirituale. Questo stile tardo è attraente, reazionario, estremamente personale; è il lato più intransigente dell’artista.

La pittura degli ultimi anni del Cavalier d’Arpino è sempre più severa e caratterizzata dalle figure ascetiche prive di movimento; esempio ne è il quadro d’altare de l’Incoronazione di Maria, nel transetto destro della Chiesa Nuova degli Oratoriani di San Filippo Neri a Roma: una grande icona dai colori raffinati ma freddi. Sono ormai lontani i tempi della raffinata e seducente arte erotica, che ora, il Cesari adopera solo per i quadri di piccolo formato.
Le chiese della sua terra natale, la Ciociaria, conservano opere di questo periodo. Esse costituiscono un singolare itinerario artistico legato al nome dell’artista. Dal suo Palazzo di Arpino, su commissione delle varie ‘Universitas’ locali, compie molte delle pale che guarniscono gli altari di queste chiese.
Nella pala d’altare di S.Michele Arcangelo ad Arpino abbiamo un esempio notevole della cromia personalissima che caratterizza l’opera tarda del Cavaliere. E’ un quadro estremamente sofisticato, in cui caratteristico è il contrasto tra i colori vivaci degli abiti (rosso cinabro, blu lapislazzuli, giallo oro), contrapposti con decisione gli uni agli altri, e le membra pallide, le ali bianco-grigie e la punta della lancia grigio-ghiaccio. Ne risulta una contrapposizione innaturale di colori sensuali e corpi pallidi, volutamente artificiale, estremamente raffinata.

Pseudonimo: Il Cavalier d’Arpino
Chi era: Pittore
Nato a: Arpino, nel 1568 da povera famiglia che nel 1582 si trasferì a Roma.

Monumenti e testimonianze

ARPINO
CHIESA DI S.MICHELE ARCANGELO
San Michele Arcangelo combatte Lucifero, olio su tela, 1620 ca.
– Dio Padre benedicente col Globo, olio su tela, 1620 ca.
– Testa di Cristo, affresco, 1606/7
– Martirio di San Pietro Martire, olio su tela, 1631

CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CIVITA
Dio Padre con la destra alzata e il globo, olio su tavola (?), 1620 ca
– S.Giovanni Evangelista
– SanGiuseppe, olio su tavola, 1625/27

CHIESA DI SANT’ANTONIO DA PADOVA
– Sant’ Antonio da Padova col Bambino Gesù e Vestizione di Sant’ Antonio da Padova, olio su tela, 1634 ca.

CHIESA DI SANT’ANDREA
– Sant’ Andrea e San Benedetto sotto lo Spirito Santo e due puttini adoranti, olio su tela, 1635

CIVITAVECCHIA DI ARPINO presso la chiesa di SAN VITO
– San Vito, Modesto e Crescenzia, olio su tela, 1625/27
Presso l’Acropoli di Arpino, nella Chiesa di San Vito, si trova la tela con i Santi Vito, Modesto e Crescenzia martiri sotto Diocleziano, figure silenziose e malinconiche, muti testimoni di un’epoca mai perduta.

CASSINO
ABBAZIA DI MONTECASSINO
– Sepoltura di San Benedetto e Santa Scolastica, olio su rame, 1627 (?)

FERENTINO
– EPISCOPIO Madonna con bambino e S.Anna, olio su tela, 1635 ca.

FIUGGI
CHIESA DI SAN BIAGIO
– Madonna con bambino, San Francesco e Sant’ Onorio, olio su tela, 1630/35

VEROLI
CHIESA DI SAN MICHELE ARCANGELO
– Santa Maria Salome con la pisside in mano,olio su tela, 1625 ca.
La Santa Maria Salome di Veroli è un esempio dell’universo protocristiano, al quale il pittore si ispira nel dipingere la Santa, che pare richiamare i mosaici ravennati, nella sua posa rigida, dal gelido rigore e dalla cromia delicata ma fredda.

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