Le Ciocie

Le Ciocie
Ciociaria, il nome di questa terra senza limiti geografici ben definiti è strettamente legato alle calzature laziali dette “ciocie”, un chiaro esempio dell’antichità dell’artigianato locale. Tradizionale calzare usato dai pastori è stato forse il primissimo prodotto dell’artigianato ciociaro. Primissimo e, oggi, simbolico. Arpino è il paese che ancora oggi le produce artigianalmente, motivato dal “Gonfalone” che ogni anno, in agosto, le vuole calzate per la sfilata in costume ciociaro.

E’ lì che il popolo porta le “ciocie”, una semplicissima calzatura che ha dato al paese il suo nome. Da Anagni in giù vidi in uso questi speciali sandali, non si poteva ideare un sistema più primitivo e al tempo stesso più comodo, almeno io l’ho invidiato sinceramente ai ciociari: la ciocia si fabbrica con un pezzo quadrato di pelle di asino o di cavallo, nei buchi viene infilato uno spago che avvolge il piede in modo che il sandalo si assottiglia verso la punta e termina con una curva; la gamba viene avvolta fino al ginocchio con tela grigia e ruvida, legata con molti spaghi di corda o di filo, così il ciociaro si muove liberamente nel campo ove la terra o sulle rocce badando alle pecore e alle capre, avvolto in un mantello o giacca di pelo grigia e corta, sempre con la sua zampogna”
(Gregorovius)

Le ciocie erano il calzare tipico del Basso Lazio, diffuso anche in molte regioni dell’Italia centrale e meridionale che, fin dal Settecento, diedero il nome ad una parte del suo territorio (Ciociaria) e ai suoi abitanti. La loro origine è controversa e una colta tradizione, basata su un passo dell’Eneide, le riporta al popolo degli Ernici i cui centri maggiori furono Ferentino, Anagni, Alatri, Veroli e Frosinone.
 

Negli ultimi secoli sono state per eccellenza le calzature autocostruite più economiche; realizzabili con pelli bovine, ovine, suine, bufaline ed asinine, naturali o conciate, erano robuste e adatte per camminare su campi lavorati e su percorsi impervi, nonché resistenti a lavori usuranti, come la vangatura. Nella loro costruzione erano impiegate lesine o coltelli per il taglio del cuoio – che, non di rado, manteneva il caratteristico pelame – e la sgorbia (scalpello a lama per praticare fori pressochè rettangolari o ovali, uguali tra loro, per il passaggio delle stringhe).

Il calzare era dotato di un plantare di cuoio curvato a forma quasi di barchetta, in alcuni casi con una punta, più o meno accartocciata ed inarcata, legato da lunghe stringhe, anch’esse di cuoio ma flessibili, avvolgenti il polpaccio fino al ginocchio, con all’estremità due spaghi per un’agevole annodatura. In antico, al posto delle stringhe, si usavano spaghi, cordicelle o fettucce. Sotto il plantare erano inseriti, con chiodi o grappe artigianali, due rinforzi (taccuni) di cuoio sui quali si applicavano le bollette, chiodi molto corti e dalla testa ampia e bombata con funzione antiusura e antisdrucciolo. Dopo la seconda guerra mondiale il cuoio e’ stato sostituito da pezzi di copertone e di camera d’aria di pneumatici.

Corredavano le ciocie i calzettoni di lana, utili contro il freddo e il morso delle vipere, ricoperti da panni di canapa o di lino; i pastori, per difendere le gambe dai rovi e dall’acqua, indossavano il guardamacchia: una pelle di capra dal lungo pelame, posta sopra i calzoni e legata alla cintura e ai polpacci.

L’uso delle ciocie, noto anche in tutto il Regno delle Due Sicilie, nelle Marche, in Toscana e in Umbria, è durato nell’Italia centrale fino agli anni ’60 del XX sec.; ancora oggi, al di là delle manifestazioni folcloristiche, è documentata qualche loro presenza, tra i pastori dei Monti Lepini, dei Monti Ausoni e della Valle di Comino.

Fuori dall’Italia alcuni tipi di calzature, riconducibili alle ciocie sono, tuttora, in uso presso alcune popolazioni rurali decentrate dell’Albania, della Grecia, della Romania e della Russia.

Testo tratto da: museogentediciociaria.it

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